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Categoria: Approfondimenti

RIMESSA ALLE SEZIONI UNITE LA QUESTIONE DELLA DONAZIONE DELLA C.D. “QUOTINA”

Fonte: CNN Notizie del 18 luglio 2014

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Si pubblica l’ordinanza della Corte di Cassazione n. 11545/2014 del 23 maggio 2014. Sulla questione affrontata dal provvedimento si segnala la risposta a quesito n. 768-2013/C., di seguito riportata

 

Cassazione, Ordinanza 23 maggio 2014, n. 11545, Sezione II civile

 

(Omissis)

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 2 ed il 10 gennaio 1989 M.E. evocava, dinanzi al Tribunale di Reggio Calabria, C.N., C.E. e C.C., con la loro madre CA.Lu., eredi di C.G., nonchè S. A., S.E., S.V. e S. V., eredi di C.V. (coniugata S.), il proprio fratello, M.N. ed i propri nipoti M. P., M.A. e M.G., tutti aventi causa di C.G. (coniugata M.) esponendo che i germani C.P., Co.Gi. e C.F., comproprietari pro indiviso, per quote uguali, di numerosi beni immobili rustici ed urbani, erano deceduti senza lasciare testamento, per cui alla morte di P., la sua eredità si devolveva per legge, in parti uguali, ai fratelli F. e G., alla sorella V. ed ai discendenti della sorella premorta Gi., i figli M.N. ed M.E. (ossia l'attrice) ed i nipoti M.P., M.A. e M.G., gli ultimi tre figli del figlio premorto di C.G., M.P.; Co.Gi. rinunciava all'eredità del fratello P., sicchè si devolveva per rappresentazione ai suoi tre figli, C.N., C.E. e C.C., i quali, peraltro, alla morte del padre divenivano comproprietari iure successionis anche dei suoi beni nella misura di 2/3, mentre il restante terzo veniva devoluto per legge al coniuge superstite, CA.Lu.; al decesso di C.V. divenivano eredi legittimi i suoi figli S.A., S. E., S.V. e SC.Vi.; deceduto anche C.F., la sua eredità si devolveva per legge per 1/3 ai figli del fratello G. (C.N., C.E. e C.C.), per 1/3 ai figli della sorella V. ( S.A., S.E., SC.Vi. e S.V.) e per 1/3 ai figli ed ai discendenti della sorella G. ( M.N. ed M.E. - l'attrice - ed i figli di M.P., M.P., M.A. e M.G.); precisava, altresì, che in vita C.F. aveva donato con atto pubblico del 1 ottobre 1987 al nipote C.N., il quale di fatto era l'amministratore di tutti i beni ereditari, la nuda proprietà della sua quota (5/12) dell'intero secondo piano di un fabbricato sito in (OMISSIS). Tanto premesso, l'attrice chiedeva: 1) dichiararsi aperta la successione di C.P. e dichiarare che la stessa era devoluta secondo le norme della successione legittima per 1/4 in favore del fratello C. F., per 1/4 in favore di C.N., C.E. e C. C. (in rappresentazione di C.G., fratello di C. P.), per 1/4 in favore della sorella C.V. e per 1/4 in favore dei figli e dei discendenti di C.G.; 2) dichiarare, altresì, aperta la successione di C.F. e dichiarare che la stessa era devoluta secondo le norme della successione legittima per 1/3 in favore dei figli del fratello C. G., per 1/3 in favore dei figli della sorella premorta C. V. (a lei subentrati per rappresentazione) e per 1/3 in favore dei figli e dei discendenti della sorella premorta C.G. (a lei subentrati per rappresentazione); 3) disporre la formazione delle masse ereditarie comprendendo tutti i beni relitti risultanti dalle dichiarazioni di successione; 4) ordinare la divisione dei beni relitti e lo scioglimento della comunione; 5) disporre la divisione per stirpi, attribuendo a ciascuna stirpe beni corrispondenti alle quote di diritto di ciascuna; 6) ordinare la formazione del progetto divisionale e gli adempimenti consequenziali.

Instaurato il contraddittorio, si costituivano le germane S. A., S.E. e S.V. (aventi causa di C.V.), le quali aderivano alla domanda di divisione e chiedevano che tra i beni da dividere fossero inclusi anche quelli oggetto della donazione fatta da C.F. al nipote C.N. con atto pubblico del 1987, deducendone la nullità per inesistenza dei beni donati nella sfera giuridica del donante, nonchè che venisse ordinato a C.N. di rendere il conto della gestione degli immobili facenti parte dell'eredità di P. e di C.F. Si costituiva anche S.V., che aderiva alla domanda attorea, nonchè i germani C.N., C. E. e C.C., i quali pur non opponendosi alla divisione, chiedevano che dalla eredità venissero detratti i beni oggetto della donazione per atto notaio … del 1987.

Espletata c.t.u., si costituivano anche i germani M.P. F.M., M.A.S.M. e M. G.R.M., figli di M.P., avente causa di C.G., aderendo alla domanda attorea, nonchè M.L. e Z.M.R., in qualità di eredi di M.N., quest'ultima in proprio e quale esercente la potestà sulla figlia minore M.C., che ugualmente facevano proprie le domande attoree. Infine con comparsa depositata il 4.12.1998 interveniva nel processo la curatela dei fallimenti di M.N. e Z.M.R., oltre a costituirsi - all'udienza del 4.12.2000 - in qualità di eredi di Ca.Lu., C.N., C.E. e C.C., ribadendo le richieste già formulate.

Con sentenza non definitiva del 30.4.2004, il Tribunale adito dichiarava aperta la successione di C.P. e devoluta secondo le norme della successione legittima la sua eredità, nonchè quella di C.F., parimenti devoluta secondo le norme della successione legittima; dichiarava la nullità dell'atto di donazione per atto notaio … del 1.10.1987, rimetteva la causa sul ruolo con separata ordinanza per le ulteriori domande. In virtù di rituale appello interposto dai germani C.N., C.E. e C. C., in proprio e nella qualità di eredi di Ca.Lu., i quali lamentavano l'errata interpretazione dell'art. 771 c.c. relativamente alla dichiarata nullità dell'atto di donazione, la Corte di appello di Reggio Calabria, nella resistenza di S. E., S.A., S.E. e S. V., nonchè di M.P.F.M., M. A.S.M. e M.G.R.M., contumaci le restanti parti, rigettava il gravame e per l'effetto confermava integralmente la sentenza impugnata.

A sostegno della decisione adottata la corte distrettuale evidenziava che avendo il defunto C.F. donato al nipote C.N. la nuda proprietà della sua quota (corrispondente ai 5/12 indivisi dell'intero) dei due appartamenti costituenti l'intero secondo piano del fabbricato di vecchia costruzione a sei piani sito in (OMISSIS), dalla lettura sistematica degli artt. 769 e 771 c.c., doveva ritenersi la nullità dell'atto di donazione, potendo costituire oggetto di donazione solo ed esclusivamente i beni facenti parte del patrimonio del donante al momento in cui veniva compiuto l'atto di liberalità, tali non potendosi ritenere quelli di cui il donante era comproprietario pro indiviso di una quota ideale.

Aggiungeva che non andavano di contrario avviso le decisioni sul punto prodotte dagli appellanti, in particolare la sentenza della Corte di Cassazione 5 febbraio 2001 n. 1596 e quella del Tribunale di Vallo della Lucania 14 aprile 1992 n. 187, che riguardavano fattispecie affatto diverse e comunque non si ponevano in contrasto con l'interpretazione dell'art. 771 c.c. offerta dal primo giudice e condivisa dalla corte di merito, giacché anche a volere considerare inefficace e non nulla la donazione ovvero sottoposta alla condizione che i beni di cui all'atto di liberalità rientrassero nella quota assegnata al donante in sede di divisione, la condizione non si era avverata né poteva mai più avverarsi per essere il donante deceduto prima di avere conseguito la proprietà esclusiva dei beni donati.

Avverso la indicata sentenza della Corte di appello di Reggio Calabria hanno proposto ricorso per cassazione i C., articolato su quattro motivi, al quale hanno resistito gli S. e l'originaria attrice con separati controricorsi.

Fissata pubblica udienza per il 25.6.2013, la causa veniva rinviata a nuovo ruolo per l'acquisizione della prova della spedizione della raccomandata ex art. 140 c.p.c. agli intimati M.P. F., M.A., M.G.R.M. e S.V., prodotta in data 5.7.2013.

Parte ricorrente ha depositato in data 14.6.2013 istanza di assegnazione alle Sezioni Unite di questa Corte ex art. 376 c.p.c., comma 2, deducendo la particolare importanza delle questioni prospettate e l'esistenza di un contrasto sulla configurabilità in ordine alla effettiva estensione del divieto sancito dall'art. 771 c.c. con riferimento alla nozione di donazione di bene "altrui", nonchè memorie illustrative.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

Deve essere dapprima esaminata l'eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla M. nel controricorso e fondata sulle modalità di redazione dell'atto, che non rispetterebbe il requisito di cui all'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, ovvero della sommaria esposizione dei fatti di causa.

L'eccezione non è fondata, in quanto, in linea con l'orientamento espresso da questa Corte, il ricorso in esame contiene una esposizione chiara ed esauriente, potrebbe dirsi persino analitica e particolareggiata, dei fatti di causa, dalla quale risultano le reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano, le eccezioni, le difese e le deduzioni di ciascuna parte in relazione alle posizioni avversarie, lo svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni, le argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si fonda la sentenza impugnata e sulle quali si richiede alla Corte di cassazione, nei limiti del giudizio di legittimità, una valutazione giuridica diversa da quella asseritamente erronea, compiuta dal giudice di merito (v. Cass. n. 7825 del 2006; Cass. n. 12688 del 2007; conformi a tale orientamento appaiono anche le sentenze nn. 16315 del 2007 e 15808 del 2008).

L'atto dunque soddisfa il requisito di cui al citato art. 366 c.p.c. n. 3, che va letto alla luce del principio di autosufficienza del ricorso, il quale impone che esso contenga tutti gli elementi necessari per porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa (ex multis, Cass. 4 aprile 2006 n. 7825; Cass. 23 gennaio 2009 n. 1707).

Quanto all'ulteriore profilo di inammissibilità del ricorso, posto dalle S. in controricorso, per pretesa acquiescenza prestata dai ricorrenti alla sentenza della Corte di appello di Reggio Calabria per avere svolto attività incompatibili con la volontà di contrastare gli effetti giuridici della pronunzia (partecipazione attiva alla valutazione dei beni ereditari ed alla formulazione della proposta di divisione dei medesimi beni), questa Corte ha in più occasioni enunciato il principio - condiviso dal Collegio - secondo cui l'acquiescenza contemplata dall'art. 329 c.p.c., opera come preclusione rispetto ad una impugnazione non ancora proposta, mentre nell'ipotesi in cui la sentenza sia già stata impugnata è possibile avvalersi soltanto di una espressa rinunzia all'impugnazione stessa, da compiersi nelle forme e con le modalità prescritte dalla legge (Cass. 14 giugno 1990 n. 5802; Cass. 14 giugno 1995 n. 6698; Cass. 27 gennaio 1998 n. 801; Cass. SS.UU. 12 gennaio 1999 n. 763).

Orbene dalle stesse ammissioni delle controricorrenti, emerge che i C. nel verbale di udienza del 24.9.2007 hanno precisato di avere fatto riserva quanto ai diritti di cui alla pronuncia parziale della medesima Corte. In questo quadro, ove i ricorrenti si sono meramente adeguati alle statuizioni di detta sentenza (Cass. n. 11803 del 1998 e SS.UU. n. 10112 del 1993), per prendere parte fattivamente alla prosecuzione delle operazioni di divisione, lasciando impregiudicato ogni loro diritto (non potendo certo definirsi di stile la riserva, come vorrebbero le S.), appare inconsistente la formulata ipotesi dell'acquiescenza che resta correlata indefettibilmente all'emergere di univoca volontà abdicativa, nella specie, e per le esposte premesse, da escludere recisamente.

Possono quindi essere esaminati i motivi del ricorso, in quanto della richiesta dei C. ex art. 376 c.p.c., comma 2, si dirà di seguito.

Con il primo motivo i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione dell'art. 168 c.p.c. e art. 347 c.p.c., comma 3, artt. 36 e 123 bis disp. att. c.p.c., oltre ad insufficiente, illogica e contraddittoria motivazione in ordine alla mancata acquisizione del fascicolo di ufficio della prima fase di merito, nonchè insufficiente, illogica e contraddittoria motivazione ed omessa motivazione su un punto controverso e decisivo per il giudizio quale conseguenza del mancato esame dell'atto di donazione dichiarato nullo, seppure inserito nel fascicolo di ufficio e nei fascicoli di parte del giudizio di primo grado, stante la mancata acquisizione dei fascicoli del giudizio di primo grado da parte della stessa corte di merito, costituendo una facoltà del giudice di secondo grado il richiederli a norma dell'art. 347 c.p.c. A corollario del motivo è posto il seguente quesito di diritto: "Dica la Suprema Corte di Cassazione se effettivamente la mancata acquisizione d'ufficio e dei fascicoli di parte, ancorchè rappresentante un error in procedendo per violazione delle norme processuali sopra citate, rilevante in sé ai fini della decisione dell'appello, implichi anche la menomabilità del diritto di difesa e, quindi, comporti un vizio di motivazione della sentenza, secondo l'indirizzo consolidato della Suprema Corte di Cassazione".

La censura è, per certi aspetti inammissibile, per altri infondata.

Mette conto evidenziare che il giudice di appello, occupandosi della mancata acquisizione del fascicolo di primo grado, ha osservato che essa non appariva di ostacolo alla possibilità di decidere la controversia, posto che il contenuto dell'atto di liberalità era puntualmente e testualmente riportato nella sentenza impugnata e negli scritti difensivi, e non essendovi contestazione sul punto fra le parti, rilevando solo la sua efficacia nell'ambito della richiesta divisione. A fronte di tale impianto motivazionale, le critiche dei ricorrenti appaiono anzitutto eccentriche rispetto alle argomentazioni svolte, in parte qua, nella sentenza impugnata. Esse attengono, infatti, alla mancata acquisizione del fascicolo di ufficio del primo grado tout court, che è problematica superata dal dibattito processuale, per come riportato nella sentenza impugnata.

Nessun rilievo viene invece avanzato nei confronti della vera ratio decidendi della statuizione impugnata, e cioè l'inutilità dell'acquisizione del fascicolo d'ufficio, e quindi l'insussistenza della necessità di insistere perchè ne venisse disposta la trasmissione, essendo controverso tra le parti non già il contenuto dell'atto, del resto ampiamente riportato nella sentenza impugnata, ma la sola valutazione dello stesso. A ciò aggiungasi che il convincimento espresso dalla Corte territoriale costituisce coerente e corretta applicazione del principio per cui l'acquisizione del fascicolo di ufficio di primo grado, ai sensi dell'art. 347 c.p.c., è affidata all'apprezzamento discrezionale del giudice dell'impugnazione, con la conseguenza che l'omessa acquisizione, cui non consegua un vizio del procedimento di secondo grado nè della relativa sentenza, può essere dedotta come motivo di ricorso per cassazione solo ove si adduca che il giudice di appello avrebbe potuto o dovuto trarre dal fascicolo stesso elementi decisivi su uno o più punti controversi della causa, non rilevabili aliunde, e specificamente indicati dalla parte interessata (Cass. 23 novembre 2007 n. 24437).

Si prestano a essere esaminati congiuntamente, per la loro evidente connessione (giacchè sotto prospettive diverse censurano l'estensione del divieto di cui all'art. 771 c.c.), i successivi tre motivi di ricorso.

Con il secondo motivo è dedotto il vizio di motivazione per essere stati riportati nella sentenza del giudice di primo grado solo alcuni stralci dell'atto di donazione, per cui il convincimento del giudice di appello sarebbe il frutto di una presunzione che sarebbe non vera essendo il tenore della donazione molto più esteso rispetto ai brani esaminati in sede di gravame. Prosegue parte ricorrente che la lettura integrale dell'atto di liberalità consentirebbe di rilevare che oggetto della donazione sarebbe rappresentato “in parte diritto proprio”, ossia 1/3 della comproprietà degli immobili di cui C. F. era titolare in modo esclusivo, per avere ciascuno dei fratelli C.F., C.P. e C.G., la piena disponibilità di una quota pari ad 1/3 degli immobili di cui al rogito; "in parte per essere a lui pervenuta dalla eredità del fratello C.P.", circostanza di cui non vi è alcun cenno nella sentenza impugnata ed anzi sarebbero stati inspiegabilmente accomunati entrambi i diritti in una indistinta "quota ereditaria".

Con il terzo motivo è denunciata la violazione degli artt. 769 e 771 c.c. in combinato disposto con l'art. 1103 c.c., oltre ad illegittimità per difetto di motivazione ed errata valutazione dei presupposti di fatto per non avere i giudici di merito riconosciuto che C.F. poteva validamente donare al nipote la quota di proprietà di cui era esclusivo titolare con riferimento all'immobile di via (OMISSIS), essendo tale bene nella sua piena disponibilità, potendo essere le argomentazioni del Tribunale riferite semmai alla residua quota di 1/12 pervenuta al donante per successione ereditaria dal fratello C.P. A conclusione del mezzo viene posto il seguente quesito di diritto: "Dica la Suprema Corte di Cassazione se il divieto di cui all'art. 771 c.c. può essere legittimamente esteso anche ai beni di cui il donante è titolare in comunione ordinaria con i propri fratelli".

Con il quarto motivo è lamentata la violazione ed erronea applicazione degli artt. 771 e 769 c.c. in combinato disposto con gli artt. 1103 e 757 c.c., nonché carenza assoluta di motivazione, per avere ritenuto i giudici di merito "beni altrui", fino al momento della divisione, anche i beni in comproprietà ordinaria, ciò in aperto contrasto con i principi che regolano l'istituto della comproprietà e dell'art. 1103 c.c. che sancisce il principio della piena disponibilità dei beni in comproprietà nei limiti della quota di titolarità del disponente. Ad avviso dei ricorrenti eguali considerazioni varrebbero anche per la cd. quota ereditaria. Viene, infine, criticata la conclusione del giudice di merito circa l'irrilevanza della qualificazione della fattispecie quale condizione sospensiva, ritenendo che la divisione dei beni ereditari, seppure avvenga dopo il decesso di uno dei coeredi, non cancella i diritti nascenti sui beni ereditari. Il motivo culmina nel seguente quesito di diritto: "Dica la Suprema Corte di Cassazione se l'art. 771 c.c. può essere legittimamente interpretato equiparando a tutti gli effetti la categoria dei "beni futuri" con quella dei "beni altrui".

La questione risolta dalla Corte di appello attiene alla proprietà della quota del fabbricato comune (sito in (OMISSIS)) appartenente a C.F., di cui egli era titolare, in parte, in proprio, per averlo costruito in comune con i fratelli C.P. e C.G., ed in parte per eredità pervenutagli dal fratello C.P., premorto, e da questi donata - a titolo di nuda proprietà, riservando a sé l'usufrutto - al nipote C.N., individuando nell'atto pubblico la quota del bene rimasto sempre in comunione con riferimento ai due appartamenti posti al secondo piano dell'edificio, da sempre occupati dal donante (come del resto dagli altri due originari comproprietari per le rispettive quote).

A fronte di siffatta situazione - nell'ambito del giudizio di scioglimento dei compendi ereditari - i giudici di merito hanno accertato la nullità dell'atto di donazione con riferimento agli artt. 769 e 771 c.c., sull'assunto che la donazione può avere ad oggetto esclusivamente beni facenti parte del patrimonio del donante al momento del compimento dell'atto di liberalità, tali non potendosi ritenere quelli di cui egli era comproprietario pro indiviso.

Invero l'art. 769 c.c. definisce la donazione come il "contratto col quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l'altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto" ed il nostro codice -segnando il mutamento rispetto al regime precedente - ha assoggettato la donazione al principio consensualistico (salvo il caso di donazione manuale: art. 783 c.c.), il quale comporta che tutti i contratti diretti a promuovere uno spostamento patrimoniale sono contratti con efficacia reale, cioè idonei a produrre il trasferimento, o immediatamente o in quanto integrati da un fatto o atto successivo.

Ciò nonostante, svalutando il mutamento degli indici normativi del codice del 1942, si è ritenuta di attualità la regola dello spoglio, tratto caratterizzante della donazione con effetti reali immediati, il quale implica il requisito dell'appartenenza del diritto al patrimonio del donante al momento del contratto, ossia, come precisa l'inciso della citata disposizione, l'arricchimento realizzato mediante disposizione di un "suo diritto" (così Cass. 5 maggio 2009 n. 10356; più di recente Cass. 23 maggio 2013 n. 12782).

Nella medesima direzione si è mossa la - peraltro scarsa - giurisprudenza in materia, nel dichiarare la nullità di ogni donazione di bene altrui. Così Cass. 20 dicembre 1985 n. 6544, che ha affermato l'invalidità di un bene altrui facendo leva sull'accezione soggettiva della futurista di cui all'art. 771 c.c.

La interpretazione analogica dell'art. 771 c.c. ricorre anche in Cass. 18 dicembre 1996 n. 11311, che ha dichiarato la nullità della donazione da parte della pubblica amministrazione di un'area che la stessa si impegnava ad espropriare.

Al predetto indirizzo si sono contrapposte le opinioni espresse da molta parte della dottrina, valorizzando una lettura dell'art. 769 c.c. che tenga conto della sua seconda parte, laddove consente l'arricchimento della parte donataria "assumendo verso la stessa un'obbligazione". In tale solco logico sembra collocarsi Cass. 5 febbraio 2001 n. 1596, che ha considerato separatamente la disposizione di beni futuri da quella di beni altrui, statuendo che la donazione di cosa altrui non deve reputarsi nulla, bensì semplicemente inefficace - data la lettura e la natura eccezionale dell'art. 771 c.c. - da cui si è fatto discendere la sua idoneità a valere quale titolo per l'usucapione immobiliare abbreviata. In sintesi, con la citata sentenza questa Corte ebbe modo di precisare che anche la donazione di cosa altrui - inefficace, ma valida - vantava l'idoneità traslativa pretesa dalla norma, anche se a rigore sembra opportuna una lettura restrittiva del precedente, emergendo non la validità di qualsiasi donazione di cosa altrui, ma soltanto di quella concepita dalle parti come donazione di cosa propria del donante, l'unica suscettibile di concorrere all'usucapione.

Il problema di non poco conto che si intreccia con i diversi argomenti posti a fondamento delle differenti soluzioni attiene alla più generale questione della ratio della disposizione di cui all'art. 771 c.c.: se intende propriamente evitare un eccessivo depauperamento del donante, come parrebbe delinearsi nelle ultime pronunce, ovvero non consentire di derivare ex lege l'obbligazione di procurare l'acquisto del bene dal terzo al donatario quanto l'acquisto della proprietà non sia effetto immediato del consenso legittimamente manifestato dalle parti, che alluderebbe ad un difetto (eventualmente temporaneo) di legittimazione a disporre, come sembra valutato dalla pronuncia del 2001.

E' evidente l'interesse alla soluzione della problematica, trattandosi di affermazione di principio per la definizione dei confini del divieto di donazione, giacchè in fattispecie come quella in esame, in cui in origine vi sia una comunione ordinaria dell'intero stabile, del quale sia stato concordato il godimento da parte di ciascuno dei comunisti - in via esclusiva - di singoli appartamenti, pur vero che poteva formare oggetto di donazione solo la quota della comunione e non il singolo bene, non essendo il donante titolare esclusivo del bene in suo (esclusivo) possesso, tuttavia non può non essere significativa la considerazione che la legittimazione a disporre è da ritenere un elemento esterno alla struttura della fattispecie contrattuale, che determina l'inefficacia traslativa che la legge imputa al consenso legittimamente manifestato tra le parti. Di qui la rilevanza anche nel microcosmo delle donazioni laddove il bene può essere ritenuto solo eventualmente altrui, circostanza che dunque può assumere un'incidenza sul negozio dispositivo o in termini di inefficacia (tesi parimenti censurata dai ricorrenti in quanto ricompresa nella più complessiva doglianza della ritenuta nullità) ovvero di nullità per quanto sopra esposto.

Il carattere di questione di particolare importanza fa ravvisare al collegio l'opportunità della trasmissione degli atti al Primo Presidente affinché valuti l'eventualità di rimettere la causa alle Sezioni Unite ove condivida l'esigenza di una risposta nomofilattica al più alto livello sulla questione.

P.Q.M.

La Corte, rimette gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 2^ Sezione Civile, il 13 febbraio 2014.

Depositato in Cancelleria il 23 maggio 2014

 

***

 

Quesito Civilistico n. 768-2013/C.

 

LE CONSEGUENZE SULL’ATTO NOTARILE DI UN ORIENTAMENTO OSCILLANTE DEGLI INTERPRETI IN MATERIA DI “QUOTINA” E ART. 771 C.C.: ASPETTANDO LA CASSAZIONE A SEZIONI UNITE

 

 

Si «prospetta la seguente fattispecie concreta: nel 2010 si apre la successione legittima di Tizio e vengono chiamati quali suoi eredi la moglie e due figli. Nell’asse ereditario vi sono una decina di immobili (tra cui una villa al mare ed un appartamento), regolarmente inseriti nella dichiarazione di successione. Nel 2012 uno dei figli dona al suo coniuge la quota indivisa di un terzo del diritto di nuda proprietà, con riserva per sé del diritto di usufrutto, dell’appartamento e della villa (atto trascritto e volturato). Il figlio donante intende ora avere assegnata- con atto di divisione con conguaglio – la piena proprietà della villa. Si intende inoltre vendere la piena proprietà dell’appartamento ad un terzo estraneo, il quale, per l’acquisto, ha necessità di contrarre un mutuo con garanzia ipotecaria concessa, quali terzi datori, dagli attuali proprietari.

Rispetto a tale fattispecie si chiede di conoscere:

  1. quali siano i soggetti legittimati a compiere l’atto di divisione parziale con conguaglio, di vendita e di concessione dell’ipoteca;

  2.  in caso non si ritenga legittimato a compiere detti atti il coniuge nudo proprietario, se sia necessario procedere al c.d. allineamento soggettivo tra le risultanze del Catasto-Conservatoria ed i soggetti effettivamente legittimati a disporre;

  3. quale sia, nella medesima ipotesi, la sorte della donazione già stipulata;

  4. quali siano, sempre nella medesima ipotesi, le conseguenze derivanti dalla stipula dell’atto di divisione e di concessione dell’ipoteca con l’intervento del coniuge nudo proprietario.

    ***

    Il quesito sollevato esige, preliminarmente, la trattazione della mai del tutto sopita questione relativa alla cd. alienazione dell’esito divisionale (1), ancor meglio il problema riguardante la qualificazione del diritto del partecipante alla comunione ereditaria, a seconda che lo stesso sia titolare di una quota sull’intero patrimonio comune oppure anche di una quota su ogni singolo bene che la compone. In secondo luogo occorre indagare più da vicino la fattispecie della cd. donazione di esito divisionale in relazione al disposto di cui all’art. 771 c.c.

    Con riferimento alla prima questione, una risalente impostazione dottrinaria (2) e giurisprudenziale (3) sosteneva che «il singolo coerede non può considerarsi titolare di una quota di comproprietà su ogni singolo bene (cd. quotina), ma soltanto di una quota sull’intero asse ereditario (cd. quotona), unitariamente considerato. Di conseguenza, la dottrina in esame nega la possibilità di disporre della quota indivisa di un singolo bene ereditario (4) ». Diversamente, si è sostenuto (5) che, una volta ricostruita la fattispecie della comunione ereditaria come un’ipotesi di comproprietà pro quota di ogni singolo bene ereditario, non può non discenderne «la possibilità per ogni coerede di compiere atti di disposizione della quota di propria titolarità su ogni singolo bene (6) ».

    Questa seconda opzione ricostruttiva si è divisa però in due sostanziali tronconi quando si è trattato di stabilire quali siano gli esiti dell’atto di disposizione della quotina in questione.

    Ebbene una parte della dottrina (7) e della giurisprudenza di legittimità (8) sostiene che è possibile disporre della quota su un singolo bene (9). Nel dettaglio si ritiene che «l’atto di cessione sopra un singolo bene facente parte della massa comune abbia immediato effetto traslativo; il cessionario diviene pertanto comproprietario del bene medesimo e può in quanto tale esercitare le facoltà di uso e di amministrazione di cui agli artt. 1100 e segg. C.c. ancorché naturalmente con riferimento al solo bene oggetto di disposizione e non anche agli altri beni comuni (10) ». Ne discende in tal modo la creazione, accanto alla comunione ereditaria, di una nuova comunione tra l’acquirente e gli altri condividenti del singolo bene (11), con la conseguenza che «per sciogliere le due comunioni venutesi a creare sarà necessario procedere a due distinte divisioni: una inerente alla comunione ereditaria, l’altra al singolo bene su cui si è costituita la nuova comunione (12) ». L’«una, alla quale sarebbero legittimati il cessionario e gli originari comproprietari escluso il cedente, avrebbe ad oggetto il bene di cui si è disposto; l’altra, alla quale sarebbero legittimati gli originari comproprietari con esclusione del cessionario, avrebbe ad oggetto i beni residui (13) ».

    In senso critico si osserva però che «tale interpretazione finirebbe con l’attribuire al singolo condomino il potere di incidere notevolmente sulla sfera giuridica degli altri comproprietari, atteso che questi ultimi, per effetto dell’atto di disposizione della quota sul singolo bene, sarebbero costretti, per giungere allo scioglimento della comunione di tutti i beni appartenenti alla originaria massa comune, ad effettuare più divisioni, le quali peraltro potrebbero condurre a risultati sensibilmente diversi da quelli che avrebbe prodotto una divisione unica (14) ».

    Secondo una diversa opzione ricostruttiva, sostenuta dalla dottrina prevalente (15) e dalla giurisprudenza maggioritaria (16), «prima della divisione il condividente può disporre soltanto dell’intera quota ereditaria con efficacia reale, mentre può disporre della quota su un singolo bene della comunione solo con atto ad esecuzione differita (17). Di conseguenza, della comunione continua a fare parte il disponente, il quale resta perciò titolare del diritto di chiedere la divisione (art. 1111) (18) » «mentre l’acquirente della “quotina” può intervenire nella divisione, ex art. 1113 c.c., quale avente causa da uno dei comproprietari. Egli, infatti, è destinatario del c.d. “esito divisionale”, ossia di quello che nella divisione sarà attribuito al suo alienante. Qualora la divisione avesse ad oggetto beni immobili e l’acquirente della “quotina” avesse trascritto l’atto di acquisto, la di lui chiamata ad intervenire in atto sarebbe condizione di opponibilità della divisione nei suoi riguardi (19) ».

    Alla luce di quanto precede, secondo attenta dottrina «sembra pertanto preferibile l’opinione di coloro i quali, in disaccordo con la tesi sopra esposta, sostengono che tutti i beni costituenti l’originaria massa comune vadano assoggettati ad un’unica divisione, alla quale il cessionario può, o secondo i casi deve, partecipare quale “avente causa da un partecipante”, in base all’art. 1113 c.c. (20) ».

    Ciò chiarito con riferimento alla vendita di esito divisionale, veniamo ad esaminare più da vicino la fattispecie in questione ossia l’ipotesi della donazione di un bene in comunione pro indiviso (e cioè di un bene di cui il donante non ha la titolarità esclusiva).

    Al riguardo giova segnalare che il problema trova una ampia e diffusa trattazione in un recente ed autorevole contributo dottrinale (21).

    In esso si evidenzia come il problema sia stato affrontato e risolto in dottrina in modi differenti: la fattispecie è stata infatti da taluni inquadrata nell’alveo della donazione di cosa totalmente altrui (valida (22)), altre volte inquadrata come donazione di cosa totalmente o parzialmente altrui (invalida (23)).

    A siffatti orientamenti deve essere affiancato quello secondo il quale «nessun problema di validità si pone nel caso in cui la donazione di un singolo bene oggetto di comunione pro indiviso sia sottoposta alla condizione sospensiva espressa dell’assegnazione al donante in sede di divisione del bene oggetto dell’atto (cd. donazione dell’esito divisionale). In tale ipotesi, infatti, viene meno la difficoltà generata dall’altruità del bene. Il trasferimento a favore dell’acquirente si attua solo all’avverarsi della condizione cosicché questi potrà essere considerato unico titolare del bene fin dal momento della conclusione della donazione, data l’efficacia retroattiva della condizione e della divisione. È, tuttavia, discussa la validità della donazione del singolo bene oggetto della comunione nel caso in cui la condizione non sia prevista espressamente. Parte della dottrina (F. Magliulo, La donazione di quota indivisa su un bene facente parte di una più ampia massa comune, Studio CNN, n. 380/2009) sostiene l’opinione negativa ed afferma che non si può ritenere che l’alienazione della quota indivisa di un singolo bene di una più ampi massa comune possa essere sottoposta ex se a tale condizione. In giurisprudenza, al contrario, la donazione del singolo bene oggetto della comunione si ritiene valida anche se la condizione non viene espressamente inserita nell’atto (Cass., 7 maggio 1960, n. 1043, in Mass. Foro. It., 1960, c. 238; Cass., 30 marzo 1963, n. 794, in Mass. Foro it., 1963, c. 227; Cass., 30 giugno 1965, n. 1370, in Giust. civ., 1966, I, p. 137; Trib. Vallo della Lucania, 13 aprile 1993, in Dir. e giur., 1992, p. 525, con nota di Ruggiero, Donazione di cosa altrui e di cosa eventualmente altrui). In tal caso l’acquisto definitivo del bene è comunque subordinato al verificarsi della condizione sospensiva che il bene assegnato all’alienante in sede di divisione. La Corte di legittimità, invero, in merito ad una fattispecie analoga alla presente, affermando l’esistenza di una condizione sospensiva cui sarebbe subordinato l’atto di donazione, presuppone la consapevolezza reciproca delle parti (donante e donatario) relativamente alla posizione giuridica del bene quale oggetto di comunione indivisa. Secondo quest’ultima opinione, che appare preferibile, la donazione non produce alcun effetto traslativo nei confronti del donatario e non si presenta alcun problema di invalidità considerato che fino all’avveramento della condizione non si producono effetti e quindi non rileva l’altruità o meno del bene (24) ».

    In conclusione, rispetto ad un quadro dottrinale e giurisprudenziale così ampio frammentario, la risposta ad ognuno dei quesiti evidenziati dipende dalla ricostruzione alla quale  il notaio (al quale spetta la scelta dell’atto da redigere) ritiene di aderire. In pratica, se si ritiene di accogliere la ricostruzione della donazione dell’esito divisionale, sottoposta alla condizione sospensiva della assegnazione al donante in sede di divisione del bene, allora, non sarà legittimato a compiere l’atto in questione anche il coniuge beneficiario della donazione. Quest’ultima infatti, stando alla teoria in commento, non avrebbe prodotto effetti diretti, ma soltanto differiti sub condicione. In tal caso, allora, risulterebbe necessario procedere al cd. allineamento soggettivo secondo le indicazioni riferite dalla dottrina sopra citata.

    A conseguenze inverse si perviene, invece, laddove si accolgano gli altri orientamenti, pure autorevolmente sostenuti in dottrina ed in giurisprudenza».  

     

     

    Antonio Musto

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  1.  Per una sintetica ed attenta ricostruzione del problema giuridico, L. Mambelli e J. Balottin (a cura di), Glossario notarile, Milano, p. 178. Da ultimo, sull’argomento, G. Recinto, Vendita di quota indivisa e di bene comune da parte del coerede, in Notariato, 2010, p. 431-436. Sulla vendita di quota di eredità, vendita di quota di singoli beni ereditari e vendita di quota indivisa dell’unico cespite ereditario anche in rapporto al diritto di prelazione e di riscatto ex art. 732, si rinvia alla diffusa trattazione in A Ferrucci e C. Ferrentino e A. Amoresano, Atti tra vivi di diritto civile, Milano, 2010, p. 427 ss..

  2.  P. Schlesinger, Successioni (diritto civile): parte generale, in Noviss. dig. it., XVVI, Torino, 1971, p. 762; G. Grosso e A. Burdese, Le successioni. Parte generale, in Tratt. dir. civ., F. Vassalli (diretto da), XII, I, Torino, 1977, p. 381; G. Branca, Della comunione e del condominio negli edifici, in Comm. cod. civ., A. Scialoja e G. Branca (a cura di), Bologna.Roma, 1982, p. 138.

  3.  Cass., 18 marzo 1981, n. 1609; Cass., 9 giugno 1987, n. 5042.

  4.  L. Mambelli e J. Balottin (a cura di), Glossario notarile, Milano, 2013, p. 178.

  5.  G. Recinto, ope cit., p. 431 ss.; M.R. Morelli, La comunione ereditaria e la divisione ereditaria, in Giur. sist. dir. civ. e comm., W. Bigiavi (fondata da), Torino, 1998, p. 56; A. Burdese, La divisione ereditaria, in Tratt. dir. civ. it., F. Vassalli (diretto da), Torino, 1974, p. 37; F. Magliulo, La donazione di quota indivisa su un bene facente parte di una più ampia massa comune, Studio CNN, n. 380/2009; Id., Gli atti di disposizione sui beni indivisi, in Riv. not., 1995, p. 119. In giurisprudenza, Cass., 13 agosto 1964, n. 2308, in Giust. civ., 1965, I, p. 57; Cass., 13 agosto 1964, n. 2308, in Giust. civ., 1965, I, p. 1967.

  6.  L. Mambelli e J. Balottin (a cura di), Glossario notarile, Milano, 2013, p. 178.

  7.  A. Fedele, La comunione, Milano, 1967, p. 293. F. Magliulo, Gli atti di disposizione sui beni indivisi, in Riv. not., 1995, p. 119; G. Recinto, Vendita di quota indivisa e di bene comune da parte del coerede, in Notariato, 2010, p. 431-436; G. Branca, Della comunione e del condominio negli edifici, in Comm. cod. civ., A. Scialoja e G. Branca (a cura di), Bologna.Roma, 1982, p. 135.

  8.  Cass., 13 agosto 1964, n. 2308.

  9.  «Secondo una prima tesi (Magliulo, La donazione di quota indivisa su un bene facente parte di una più ampia massa comune, studio del CNN n. 380-2009, in Studi e materiali, 2, 2010, 337 ss.; Recinto, Vendita di quota indivisa e di bene comune da parte del coerede, in Notariato, 2010, 4, 431 ss.), l’atto di disposizione in esame avrebbe efficacia traslativa immediata, divenendo il cessionario comproprietario del bene alienato. Si discute, poi, se si instauri una nuova comunione tra costui e gli altri compartecipi originari ovvero egli sia da considerare quale avente causa legittimato ad intervenire all’unica divisione ex art. 1113 c.c. (cfr. amplius Magliulo, op. cit., 351 ss.)» Nota a quesito, n. 387-2013/, est. M. Bellinvia.

  10.  Ricostruisce in tal modo l’orientamento in commento, F. Magliulo., Gli atti di disposizione sui beni indivisi, in Riv. not., 1995, p. 122. In buona sostanza, in base a tale teoria «il cessionario diviene comproprietario del bene medesimo, e può pertanto esercitare in relazione a questo bene le facoltà di uso e di amministrazione di cui agli articoli 1100 e ss. Cod. civ.»  L. Mambelli e J. Balottin (a cura di), Glossario notarile, Milano, 2013, p. 178. 

  11.  G. Capozzi, Successioni e donazioni, cit., p. 1306-1307.

  12.  G. Capozzi, Successioni e donazioni, cit., 1306-1307.

  13.  F. Magliulo., Gli atti di disposizione sui beni indivisi, in Riv. not., 1995, p. 123. 

  14.  F. Magliulo., Gli atti di disposizione sui beni indivisi, in Riv. not., 1995, p. 123-124. 

  15.  L. Salis, La comunione, Torino, 1939, p. 130; F. Satta, Alienazione di bene indiviso o di quota di bene indiviso e retratto successorio, in Giur. it., 1949, I, 1, p. 27 ss.; D. Rubino, La compravendita, in Tratt. dir. civ. e comm., A. Cicu e F. Messineo (diretto da), Milano, 1971, p. 378; S. Martuccelli, Sulla vendita di eredità, in Fam. pers. e succ., 2007, p. 833

  16.  «La giurisprudenza, tuttavia, è orientata diversamente, sostenendo che prima della divisione il compartecipe può disporre con immediata efficacia traslativa soltanto della quota ereditaria sull’intera massa comune, mentre l’atto di disposizione della quota su di un singolo bene comune ha effetti differiti e subordinati all’esito della divisione (cfr. Cass. civ., sez. II, 19 gennaio 2012, n. 737, secondo la quale «posto che la vendita, da parte del coerede, dei diritti a lui spettanti su singoli beni ereditari non comporta un effetto reale immediato, l’acquirente non subentra nella comunione ereditaria a meno che non risulti, anche dal comportamento delle parti, l’intenzione di trasferire l’intera quota spettante all’alienante»; Cass., 1° luglio 2002 n. 9543, in Notariato, 2003, 139 ss., con nota di C. M. DI BITONTO, rileva che la vendita di un bene, facente parte di una comunione ereditaria, da una parte di uno solo dei coeredi, ha solo effetto obbligatorio, essendo la sua efficacia subordinata all’assegnazione del bene al coerede-venditore attraverso la divisione. La Cassazione precisa che «In tema di comunione ereditaria, opera il principio di cui all’art. 757 c.c., secondo cui “ogni erede è reputato solo ed immediato successore di tutti i beni componenti la sua quota o a lui pervenuti dalla successione, anche per l’acquisto all’incanto, e si considera come se non avesse mai avuto la proprietà di altri beni ereditari”». Da ciò consegue che non può ritenersi che la vendita di un bene, rientrante nella comunione ereditaria, da parte di uno solo o alcuni dei coeredi, produca effetti reali relativamente alla quota ideale dei singoli alienanti, in quanto questi, per effetto dell’assegnazione in sede di divisione, potrebbero non risultare mai proprietari del detto bene o di parte di esso (questa volta pro diviso). In questo caso la vendita ha solo effetto obbligatorio, essendo la sua efficacia reale subordinata all’assegnazione del bene ai coeredi-venditori attraverso la divisione. Pertanto, fino a tale assegnazione il bene continua a far parte della massa comune da dividere)». Tale tesi è contestata, come si è detto, dalla dottrina (v. Magliulo, op. cit., 354 ss.) e – si sottolinea – è stata sostenuta con riferimento alla comunione ereditaria non, invece, con riferimento alla comunione ordinaria. Anzi, dalla lettura della sentenza del 2002 della Cassazione emerge che i motivi addotti a sostegno del su esposto orientamento sono specifici della comunione ereditaria (in particolare, il richiamo all’art. 757 c.c. e l’affermazione che il coerede, in quanto tale, non sarebbe titolare di una quota ideale di proprietà del singolo bene, bensì solo di una quota di eredità, intesa come universitas, in cui non necessariamente rientra il singolo bene oggetto di alienazione). La stessa Corte, del resto, sottolinea la differenza con la comunione ereditaria laddove afferma che «mentre nella comunione normale di un bene il rapporto tra il comproprietario del bene (che poi aliena) ed il bene è diretto ed è dato dall’unico diritto esistente, quello di (com)proprietà, nella comunione ereditaria il rapporto non è diretto, ma passa attraverso il diritto alla quota ereditaria» Nota a quesito, n. 387-2013/, est. M. Bellinvia. L’orientamento giurisprudenziale sopra richiamato sembra comunque essere anche confermato da una più recente sentenza, Cass., 23 aprile 2013, n. 9801, in Giust. civ. Mass., 2013, la quale, di recente, ha sostenuto che «Il contratto di vendita della quota di una società di capitali caduta in successione “mortis causa”, concluso da alcuni coeredi sull’assunto dell’attuale piena titolarità dei diritti di partecipazione sociale, la quale poteva, invece, esser loro riconosciuta soltanto all’esito del pendente giudizio di divisione, non avendo ad oggetto la quota di eredità spettante agli stessi cedenti, non è volto a far subentrare l’acquirente nella comunione ereditaria e rimane, pertanto, inopponibile ad altro coerede rimasto estraneo all’alienazione, neppur rilevando rispetto a tale alienazione l’esercizio della prelazione di cui all’art. 732 cod. civ.; né l’opponibilità di detta cessione nei confronti del comproprietario non partecipe al negozio può essere affermata ricostruendo l’accordo come vendita di quota indivisa dei soli diritti sociali, ai sensi dell’art. 1103 cod. civ., in quanto anche un tale atto di disposizione riveste un’efficacia meramente obbligatoria, condizionata all’attribuzione del bene, in sede di divisione, ai coeredi alienanti». Cass., 1 luglio 2002, n. 9543; Cass., 15 febbraio 2007, n. 3385; Cass., 9 aprile 1997, n. 3049; Cass., 30 ottobre 1992, n. 11809; Cass., 29 aprile 1992, n. 5181; Cass., 2 agosto 1990, n. 7749; Cass., 10 marzo 1990, n. 1966; Cass., 15 giugno 1988, n. 4092; Cass., 23 giugno 1986, n. 368; Cass., 22 gennaio 1985, n. 246.

  17.  «Precisa, ulteriormente, la giurisprudenza che tale atto sarà sottoposto alla condizione sospensiva (…) che il bene alienato venga assegnato nella divisione al condomino venditore: cd. “alienazione dell’esito divisionale” » G. Capozzi, Successioni e donazioni, cit., p. 1306-1307.

  18.  G. Capozzi, Successioni e donazioni, cit., p. 1306-1307.

  19.  C. Carbone, Nuovi casi notarili, Mortis causa, Napoli, 2011. P. 249. L’Autore osserva come, secondo la giurisprudenza, stando agli artt. 757 e 1116 c.c., il singolo comunista «non potrebbe disporre con efficacia reale immediata di un bene che, in sede di divisione, potrebbe essere assegnato ad un altro, con effetto retroattivo al sorgere della comunione. Il singolo condomino, in altre parole, non può unilateralmente, estromettere dalla comunione la quota di un bene. In forza del meccanismo contenuto nell’art. 757 c.c., l’assegnazione del bene ad un condividente diverso dall’alienante toglierebbe efficacia all’atto dispositivo della “quotina”. Autorevole dottrina afferma, però, che tale subordinazione si verifica come prospettato solo quando le parti facciano, effettivamente, riferimento alla situazione all’esito della divisione. Ove tale riferimento manchi, avendo le parti alienato senza precisazioni il diritto sul bene, non si potrebbe parlare di vendita ad efficacia sospesa, in quanto medio tempore, fino alla divisione, il bene resterebbe nel patrimonio dei coeredi, e al quota sarebbe liberamente alienabile dall’alienante; per identificare cosa l’acquirente abbia ottenuto in virtù della stipula, non sarebbe sufficiente un mero diritto di credito, ma un diritto di godimento, accompagnato dal compossesso spettante al dante causa in ordine al bene contemplato. Non ci sarebbe, quindi, un nuovo comunista, né si formerebbe una nuova comunione: il condomino alienante resterebbe nella posizione di comunista e sarebbe il solo legittimato ad intervenire nell’amministrazione e nella formazione delle maggioranze;  l’acquirente intanto diverrebbe interessato agli atti di amministrazione e di gestione e quindi potrebbe intervenire nella divisione. Secondo tale autore, ciò significa che comunque si produce un effetto immediato, per cui ove nulla fosse attribuito all’alienante, l’acquirente non potrebbe pretendere la restituzione di quanto pagato: egli ha stipulato una sorta di vendita aleatoria. (…). Altra dottrina poi qualifica la vicenda, in assenza di esplicito condizionamento, come vendita di bene parzialmente altrui. La giurisprudenza in maniera più decisa conclude che il singolo condomino possa disporre della 2quotina” con efficacia obbligatoria e, cioè, sotto la condizione sospensiva dell’assegnazione del bene a lui, in sede di divisione: c.d. alienazione dell’esito divisionale. Potrebbe, altresì, disporre della “quotina” come cosa altrui, totalmente o parzialmente, a seconda della tesi che si volesse seguire quando ad essere alienata è la “pars quota” anziché la “pars quanta”. Alternativamente, il singolo comunista potrebbe concludere un negozio puro, con efficacia immediata, ma aleatorio».

  20.  F. Magliulo., Gli atti di disposizione sui beni indivisi, in Riv. not., 1995, p. 124. 

  21.  F. Loffredo, Atti tra vivi. Legge notarile, Milano, 2011, p. 54.

  22.  F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1952, p. 328.

  23.  A. Torrente, La donazione, in Tratt. dir. civ. e comm., diretto da A. Cicu e F. Messineo, Milano, 1956 (2006), p. 412. In giurisprudenza, Cass., 5 maggio 2009, n. 10356. Per ulteriori approfondimenti, si rinvia alla diffusa trattazione della vicenda in esame, in P. Furgiuele, La donazione di cosa altrui. Note in tema di atto dispositivo e titolo astrattamente idoneo, in Giust civ., 2010, 11, p. 2609.

  24.  F. Loffredo, Atti tra vivi. Legge notarile, Milano, 2011, p. 54.